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OMICIDIO MADRE E FIGLIA, SCRIVE L'AVVOCATO DIFENSORE
OMICIDIO MADRE E FIGLIA, SCRIVE L'AVVOCATO DIFENSORE
23/04/2015
Nel clima di profondo turbamento che consegue ad un fatto così tragico -l'uccisione di una giovane donna e di una bambina innocente- è fin troppo facile (e per certi versi comprensibile, per quanto irrazionale) la tentazione del linciaggio mediatico. E fin troppo facile è la tentazione di attribuire al difensore la responsabilità infamante di voler sottrarre alla giusta pena colui che è considerato uno spietato assassino. Sarebbe, invece, necessario comprendere che è dovere dell'avvocato difensore adoperarsi perché venga applicata una pena giusta. Nulla di più. Nulla di meno. L'obbligatorietà della difesa tecnica, anche per il peggiore dei delinquenti, è un'ineludibile conquista della società civile in uno stato di diritto: l'avvocato difensore —e lo rivendico con orgoglio— nello svolgere con onore e dignità la professione forense è la garanzia del giusto processo e di un processo giusto, non certo dell'impunità per i criminali. Saranno le indagini in corso ad acclarare se il dramma sconvolgente che si è consumato e che ha turbato così profondamente tutti —perché sono state toccate nel profondo le corde delicatissime degli affetti familiari— avrebbe in qualche modo potuto essere evitato. Oggi, tutti sapevano o dicono di avere saputo: era fatto notorio che Lahmar fosse un uomo violento, che avesse ripetutamente minacciato di morte la moglie, che fosse depresso per aver perso il lavoro non accettando, perché infamante della propria dignità virile, il dover essere mantenuto dalla moglie; addirittura emerge come fosse stata prescritta presso il servizio psichiatrico pubblico una valutazione medica sull'uomo. La vittima, con coraggio —essendo costretta anche a vincere le resistenze imputabili al proprio retaggio culturale, che impone il riserbo e la sottomissione muliebre— si era rivolta ad un centro antiviolenza per ottenere aiuto. Ma se la situazione era così grave e notoria, la domanda a cui dobbiamo dare risposta è una sola: questa tragedia poteva essere evitata? È a questo che dovrebbero servire le reti di protezione per le vittime di violenza: la condivisione e la diffusione in rete delle informazioni sono ciò che rendono un caso diverso dall'altro, consentendo la graduazione in termini di necessità e urgenza dell'intervento. Avrebbe dovuto essere protetta certo la donna, ma anche avrebbe dovuto essere impedito all'uomo di poterle fare violenza, adottando le misure precauzionali del caso. E nel caso di specie sussistevano —molto probabilmente— tutti i presupposti perché un intervento fosse attuato con urgenza, ancor prima che il Lahmar rientrasse dal Marocco, il 9 aprile, ad esempio accogliendo con urgenza la donna e la bambina in un luogo protetto. Perché se è alla follia che può essere ricondotto il dramma che si è consumato, abbiamo tutti il dovere morale di chiederci, superando l'onda emozionale e l'impulso irrazionale della vendetta, che mai può essere affidata alla mano della giustizia, quale sia la direzione in cui vogliamo muoverci: se ci possiamo accontentare, per assecondare le esigenze primordiali, o peggio, per quietare le coscienze, di sapere che "il mostro" si trova al sicuro dietro le sbarre e che ci rimarrà tutta la vita, o se non è quantomeno altrettanto opportuno —forse necessario— fare in modo che nessun'altra vita possa venire spezzata in modo così atroce. Lahmar è in carcere, consapevole di andare incontro al proprio destino. Il suo male l'ha già compiuto, e qualsiasi pena gli verrà comminata non sarà mai altrettanto grave e severa di quella provocata dal ricordo del sorriso di sua figlia. Ma quanti mariti e padri violenti, affetti da disturbi mentali, protetti dalle mura del silenzio della propria abitazione, dall'omertà della vergogna, vivono accanto a noi? E quante sono le vite ancora da salvare? Se le istituzioni e noi tutti chiudiamo gli occhi di fronte al problema vero, ossia quello di rendere effettiva ed efficace la tutela delle vittime di violenza di genere, mediante la diffusione della cultura e soprattutto con la predisposizione di idonei forme di protezione e tutela, ci ritroveremo domani a piangere un'altra Touria, un'altra Hiba, e tutte le altre innumerevoli vittime innocenti. La mia presenza alla fiaccolata di questa sera, oltre a manifestare la partecipazione umana a questa immensa tragedia, vuole essere un preciso monito in tal senso: nessuno sia lasciato solo. Gianluca Liut Avvocato Foro di Pordenone difensore di Abdelhadi Lahmar